Pace e pacifismo

Per fare un po’ di chiarezza

avvertenza: questo articolo risente dell'influenza di una prospettiva teo-con, in cui oggi non mi riconosco più. Lo pubblico, senza nulla modificarne, a scopo documentale; ma oggi sono molte le cose che cambierei.

Pubblicato su Libertà di educazione, n.1/2003, pp. 106-13.

«Parlano di pace al loro prossimo, ma hanno la malizia nel cuore»

«Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come ve la può dare il mondo, Io la do a voi»

«Me infelice, abito straniero in Mosoch, dimoro tra le tende di Kedar»

una pretesa confusionaria

Tra i due termini, pace e pacifismo non si è forse mai, come nella attuale vicenda, fatta tanta confusione. Forse mai una proposta parziale (“il pacifismo”), legittima di per sé, ma a patto di presentarsi onestamente come tale, ha provato, con notevoli successi, a presentarsi come universale e neutra (“la pace”).

È vero che l’abitudine di presentare il proprio particolare come totalità è un vizio antico di una certa parte politica: dagli anni ‘60/’70 c’erano le associazioni “degli” studenti, il Movimento degli studenti, che in realtà rappresentavano solo una parte di ciò che pretendevano di rappresentare. Tipico di una certa sinistra è pensare che gli intellettuali sono di sinistra, la cultura è di sinistra (altrove non c’è pensiero, ma solo “sudditanza” ai padroni di turno). Così come tipico è per una certa area di sinistra pensare che solo chi è di sinistra è etico. Analogamente, quella fazione, quando governa certe amministrazioni locali usa volentieri espressioni pubbliche del tipo “la città di … è …” (schierata sulla tal posizione). È un vizio antico, che affonda le sue radici in Lenin, Marx e Rousseau, con la loro pretesa che una minoranza possa avere il diritto di concepirsi come incontrollabile garante del bene della totalità. Un vizio che, filosoficamente, si radica nella pretesa appunto di totalità da parte di una ragione che, pur essendo finita, pretende per sé una divina infinitezza. Purtroppo, nonostante il ‘900 stia ad insegnare che quando l'uomo vuol farsi Dio crea l’inferno sulla terra, c’è ancora parecchia gente che si attarda su tali pretese.

Ma non vogliamo soffermarci sulle premesse filosofiche, quanto analizzare nel merito quello distinzione, che non viene riconosciuta, tra pace e pacifismo, ossia tra pace e un certo modo di intendere la pace.


per fare un po’ di chiarezza

È opportuno allora proporre anzitutto delle definizioni.

Cominciamo dalla parola pace: si possono distinguere almeno due fondamentali accezioni del termine, una interiore e una esteriore. La pace interiore, di cui ha parlato Gesù ad esempio nei discorsi dell’ultima Cena riferiti dal Vangelo di Giovanni (“Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi”, Gv, 14, 27), e di cui ha parlato molto ad esempio un autore come S.Agostino (cfr. i capitoli iniziale e finale delle Confessioni), è quella situazione affettivo-emotiva (appunto di pace) che si verifica in chi obbedisce al Disegno di Chi lo ha creato. Il motivo è semplice: Chi ha creato la nostra natura ha avuto un Disegno su di noi, vuole da noi qualcosa di ben preciso, ossia la nostra realizzazione, il cui esito è la nostra piena e eterna felicità. Chi ha creato la nostra natura non ci ha infatti abbandonato a una indefinita indifferenza di scelte (del tipo: “arrangiatevi voi come meglio vi pare”): ha un Disegno su di noi, un Disegno buono, anche se il riconoscimento di questo Disegno passa attraverso la nostra libertà, che Dio non forza mai. La pace si attua in noi nella misura in cui la nostra libertà si adegua al Disegno del creatore della nostra natura, ossia si adegua alla nostra natura: si capisce che una libertà che agisse in difformità con la natura provocherebbe una lacerazione (un aspetto dell’io contro un altro aspetto dell’io). La pace (interiore) è la non-lacerazione interiore, che avviene nella misura in cui si rispetta l’ordine voluto, per il nostro bene, dal Creatore della nostra natura. Per questo, ad esempio, il diavolo non può avere pace, non può essere in pace, perché si è ribellato a Dio e il suo volere è irrimediabilmente discorde dalla sua natura; la sua natura non può non desiderare il Bene, ma la sua volontà è definitivamente cristallizzata nel male: questa lacerazione, che in lui, data la sua natura “eviterna” (in qualche modo intermedia tra eternità e tempo), è irreversibile, è fonte di eterna inquietudine e infelicità.

Vi è poi la pace esteriore: tra persone che convivono, tra gruppi e realtà associate, e infine tra stati e gruppi di stati. La pace esteriore, come hanno spesso ricordato i Papi negli ultimi decenni, non è semplicemente una non-guerra (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, § 2034: “La pace non è la semplice assenza della guerra”). Vi può infatti essere un ordine esteriore imposto in modo violento, che soffoca ogni ribellione, ma non risulta giusto; vi può dunque essere una non-guerra diversa dalla pace. Tale sarebbe stato un ordine europeo dominato da una Germania nazista vincente, tale era l’ordine dell’Est europeo sotto il giogo sovietico: non c’erano guerre, l’ordine “regnava a Varsavia”, ma quanta violenza, quanta barbarie, quanti milioni di esseri umani massacrati in modo “pulito”, formalmente legale; insomma non si trattava di vera pace. In realtà dunque una piena e totale ci sarebbe solo nel caso in cui tutti gli esseri umani fossero giusti e veri, il che potrebbe avvenire solo nel caso in cui tutti si convertissero alla verità “tutta intera”[1].

In questo senso la pace (esteriore) resta un concetto-limite, un ideale a cui guardare e verso cui tendere il più possibile, sapendo che gli uomini nascono con quella tara che il Cristianesimo chiama peccato originale (ma anche Kant, ad esempio, chiamava “male radicale”), e che il tentare di estirpare completamente il male, eliminando persone o gruppi in cui si vuole identificare il Male assoluto, abbiamo già visto porta a violenze inaudite, come i Lager e i Gulag. La pace, realisticamente, dunque eticamente, è un ideale a cui tendere e che suppone prima l’attuazione (mai perfetta del resto) di un ordine davvero giusto e rispondente alla verità delle cose. Questo ordine giusto non è, a sua volta, frutto solo e soprattutto di cambiamenti nelle strutture (economiche o politiche), ma ha il suo baricentro essenziale in un cambiamento della persona. Il che non può non richiedere sacrificio, ed è affidato alla indelegabile libertà personale, che, per essenza, non può essere telepilotata (non lo fa nemmeno Dio, men che meno lo potrebbero degli esseri umani, limitati come sono).

Le varianti del pacifismo

Che cosa vuole il pacifismo (invece)? È giusto ricordare che non esiste un solo pacifismo. Tuttavia si può dire che le sue varianti hanno in comune la centralità della non-guerra, come in qualche modo slegata dalla giustizia e dalla verità.

Ma è necessario distinguere varie tipologie di pacifismo:

1. Lo pseudo-pacifismo ideologico

È il pacifismo di chi è contrario non alla guerra, ma a certe guerre: quelle fatte dall’America (e dall’Occidente); dunque uno pacifismo che muove in realtà da una precisa strategia ideologicamente orientata: indebolire, e se possibile ridurre all’impotenza, l’Occidente (e soprattutto dagli USA), centrale irradiatrice dell’odiato capitalismo; sperando così, che dalla ceneri del capitalismo nasca finalmente la nuova società della eguaglianza universale.

È il pacifismo di Lenin, che definiva la guerra come imperialista, ma poi diceva che “se per costruire il comunismo fosse stato necessario eliminare i nove decimi del genere umano sarebbe stato giusto farlo”. In effetti Lenin poteva accusare il capitalismo di essere guerrafondaio per poi però mettere in guardia dall’ascoltare musica, perché “la musica fa venir voglia di accarezzare la testa ai bambini, mentre è giunto il momento di mozzargliela” (ovviamente non a tutti i bambini: ma un vero rivoluzionario deve essere pronto ad ogni crudeltà contro il Nemico di classe, senza avere impacci nel sentimento di compassione.)

È il pacifismo strabico, tipico di molta sinistra (non solo europea), che vedeva e vede gli errori del bellicismo americano, ma taceva e tace sugli orrori dei regimi comunisti (tra gli 80 e i 200 milioni di morti ammazzati, nel ‘900). Lo strabismo è evidenziato dalla inspiegabile differenza di valutazione tra l’urlata esecrazione sui morti provocati dalle guerre condotte dagli USA, e l’infastidito, non di rado stizzito, silenzio sui morti provocati dalla repressione comunista. Questa diversa valutazione è sintomatica che ciò interessava non era salvare delle vite umane, ma solo affossare l’immagine del nemico, gli Stati Uniti.

Per questo si potrebbe dire che lo slogan del pacifismo degli anni ’80, “meglio rossi che morti”, per questa impostazione andava letto in realtà come “meglio rossi”, senza ulteriori aggiunte.

Si potrebbe anche notare che di strabismo è lecito parlare anche in anni più recenti, allorché la stessa area politica, derivazione leninista, si è rivelata alternativamente pacifista quando è all’opposizione, ma favorevole alla guerra quando è al governo. Ci riferiamo ad esempio al caso dei DS in Italia, che ha contribuito a promuovere la guerra contro l’ex-Yugoslavia (1998/99), una guerra tra l’altro non autorizzata dall’ONU, e ha messo a disposizione le basi militari italiane, come Aviano, per le operazioni di bombardamento anche su obbiettivi civili.

Ma, più ancora, lo strabismo dei decenni anteriori alla caduta del Muro di Berlino continua, nell’attuale contesto, col mettere una strana sordina ai crimini contro l’umanità, o comunque contro i diritti umani più elementari, compiuti da regimi non occidentali, come il Sudan, l’Iran, l’Indonesia (Timor Est, le Molucche), il Pakistan, la Costa d’Avorio, la Corea del Nord.

Non ci sembra perciò esagerato né immotivato definire pseudo-pacifista questa corrente, e dire che in realtà il suo obbiettivo non sembra essere la pace e la salvaguardia della vita umana.

Si tratta, tra l’altro, di una posizione, oggi, più “contro” che “per”: in effetti non si capisce bene quale sarebbe il faro a cui guarda quest’area, dopo la caduta del comunismo. Eppure permane in aree non ristrette della sinistra (ex?-)leninista un radicato e viscerale odio antiamericano e antioccidentale. Che oggi è costretto a oggettive alleanze con impostazioni, come il fondamentalismo islamico, che non gli sono esattamente vicine dal punto di vista ideologico. Amaro destino per chi definiva la religione come “oppio dei popoli”.

2. Il pacifismo “impaurito”

È probabilmente quello maggioritario oggi, in moltissimi paesi. È figlio della paura: “se ci sarà guerra, potremmo morire”. Per questa impostazione era vero dire “meglio rossi che morti”, e oggi lo sarebbe dire “meglio islamizzati (binladenizzati!) che morti”.

Non si può negare che la paura di oggi sia moltiplicata dalla agghiacciante possibilità di atti terroristici massicciamente distruttivi; le Twins Towers sono, in proposito, ancora poco: pensiamo a casi come un attacco biologico, o come l’avvelenamento delle falde acquifere, o come l’uso di bombe atomiche “sporche”.

Quest’area vuole un (più o meno) totale e unilaterale disarmo del mondo occidentale, o almeno vuole che si eviti l’uso, o anche solo la minaccia della forza, non solo e non tanto perché valuti in modo gravemente negativo l’Occidente o perché neghi che in paesi non-occidentali ci siano dittature sanguinarie, ma perché pensa che iniziative belliche possano suscitare “dall’altra parte” reazioni devastanti, tali da compromettere gravemente la sicurezza delle stesse società occidentali.

Ci si dovrebbe chiedere se storicamente questa posizione abbia senso: contro chi è aggressore un atteggiamento rinunciatario si rivela vincente? E invece un atteggiamento di fermezza di rivela perdente? La storia, almeno in vicende rilevanti del ‘900, sembra insegnare esattamente il contrario. Dal punto di vista di una controllabilità empirica il pacifismo è si è rivelato perdente, ad esempio nella vicenda degli euromissili, negli anni 80. La paura di una catastrofe apocalittica ("se mettiamo gli euromissili, moriremo tutti") si è rivelata sbagliata. Si è dimostrato vero esattamente il contrario. Che la politica forte di Ronald Reagan ha ottenuto non una situazione di insicurezza e di instabilità, ma al contrario, una situazione di (maggior) pace. È difficile contestare in effetti che gli euromissili e il complessivo impegno di Reagan per una deterrenza credibile, abbiano favorito il crollo del comunismo, e con esso la fine, dopo 50 anni, del terrore atomico.

Ma potremmo fare anche una controprova, del fatto che un atteggiamento “molle”, da pacifismo impaurito, non aiuti una pace vera. Basta pensare agli accordi di Monaco (1938), impeccabili da un punto di vista pacifistico, e che si rivelarono però un ottimo alleato della guerra.

3. Il pacifismo “cattolico”

Le parentesi sono dovute alla nostra idea che questa posizione non rispecchi né la tradizione bimillenaria della Chiesa, né il Magistero ecclesiastico, anche più recente, e nemmeno le più recenti prese di posizione e iniziative dell’attuale Pontefice.

Questo pacifismo converge parzialmente con quello ideologico di sinistra. Emblematiche sono (state) a questo proposito le marce “per la pace” Perugia-Assisi, nate nel conteso della protesta “pacifista” contro gli euromissili, agli inizi degli anni ’80: lì appunto ha iniziato a consumasi l’infuocato coniugio tra cattolicesimo di sinistra e i partiti della sinistra leninista (allora il PCI, DP, PDUP). E non si trattava più, come negli anni dell’immediato dopo-guerra di pochi intellettuali (come Franco Rodano), ma di crescenti fette di movimenti e associazioni, sempre più entusiasticamente benedette da settori non esigui del clero italiano.

Il presupposto di questo “pacifismo” è la lettura demonizzatrice che questa area dà del fenomeno globalizzazione. Ne discende il giudizio che l’Occidente abbia tutta la colpa, non solo di tutte le guerre che si sono svolte in tutto il mondo nel XX secolo, ma, più in generale, di tutte le ingiustizie che esistono al mondo. Quindi combattere le guerre e le ingiustizie (che si combattono nel Terzo Mondo) con azioni di forza militare è un non-senso: occorre agire alla radice, eliminando le cause delle guerre e delle dittature, cause che risiederebbe appunto esaurientemente nella egoistica avidità sfruttatrice dell’Occidente.

Per definire una critica di questo atteggiamento è dunque necessario accennare ai motivi per cui la demonizzazione della globalizzazione e dell'Occidente appare razionalmente infondata e incompatibile con il dogma cristiano.

Si potrebbe obbiettare nel merito a questa linea, che risulta schematica e falsa l’idea che l’Occidente si sia arricchito impoverendo il Terzo Mondo. Come abbiamo osservato molte volte, al seguito di Padre Gheddo, personalità impegnatissima nell’aiuto ai poveri del Terzo Mondo, si tratta di uno schema rozzo e astratto, che dimentica l’elementare dato che la ricchezza dell’umanità nel suo insieme è cresciuta, e che dunque essa non può essere vista come una torta, statica, in cui la fetta più grossa di uno corrisponderebbe alla fetta più piccola dell’altro.

Ma esistono altre considerazioni, più a monte. Considerazioni che fanno configurare il “catto-pacifismo”[2] come erroneo non solo e non tanto a livello di analisi storica, ma a livello di presupposti antropologici e teologici. Li sintetizziamo così:

  1. una dimenticanza del peccato originale. La dottrina della Chiesa insegna che tutti gli uomini nascono col peccato originale, e che senza la grazia nessuno è capace di bene operare. Invece per il “pacifismo” cattolico è come se il peccato originale avesse una ineguale irradiazione sugli esseri umani: alcuni ne sarebbero colpiti al di sopra della media (gli americani), altri mediamente (gli europei), altri ancora ne sarebbero pressoché immuni (i popoli del Terzo Mondo, specialmente quelli mussulmani). Al mondo ci sarebbero dunque dei popoli cattivi, a cui ascrivere tutto il male, e dei popoli buoni, che sbagliano solo perché indotti dai cattivi, e dei popoli “in via di rinsavimento”, che dovrebbero adoperare la loro influenza per impedire che i cattivi, potenti, schiaccino i buoni, deboli, da cui può venire la salvezza dell’intera umanità. Ho forse accentuato in modo caricaturale la questione, ma non credo di essermi allontanato troppo dai presupposti del pensiero catto-pacifista. Contro tale deviazione, che è, ripetiamolo, dottrinale prima che storico-politica, non sarà inutile ricordare che per la Tradizione e il Magistero tutti gli uomini nascono col peccato originale. E tutti, non solo alcuni, sono egoisti, avidi, insinceri e quant’altro.
  2. una sottostima del valore della Redenzione operata da Cristo. È la conseguenza del primo errore. Se non si pensa al peccato originale come una comune eredità, che corrode profondamente la volontà umana, si finisce col pensare che l'uomo si possa salvare da solo, con la sua azione e la sua buona volontà. Così vediamo che i catto-pacifisti, più che cercare un riconoscimento nella fede con chi crede in Cristo, riconosciuto come unica salvezza dell’uomo, stringono con non-credenti alleanze a cui sembrano attribuire un valore non tattico-circoscritto, ma strategico-totalizzante. Su tali alleanze e sull’azione che in esse viene sostenuta, il catto-pacifismo sembra puntare in modo prevalente se non esclusivo: come se la pace venisse dall’agire umano (un agire umano oltre tutto egemonizzato da un pensiero non-cristiano e ateo), e non fosse un dono che va anzitutto ed essenzialmente mendicato da Cristo, Redentore dell'uomo. Leggendo e sentendo quello che dicono, si direbbe che il baricentro della loro vita sia la loro capacità di iniziativa, fondata su strumenti di analisi e metodi di intervento interamente desunti da ideologie atee, e interamente condivisi da personalità atee: non si intravede una qualche consapevolezza della irriducibile specificità cristiana, né di quanto la Chiesa da sempre insegna, che “senza la Tua forza nell’uomo non è nulla, nulla senza colpa”.
  3. Una dimenticanza del libero arbitrio. È implicita in effetti nella tesi secondo cui tutto il male non-occidentale non sarebbe altro che effetto della cattiveria occidentale: i popoli non-occidentali non possono non sbagliare, in quanto saremmo noi occidentali, che col nostro cattivo influsso avremmo rovinato la loro originariamente paradisiaca [vedi dimenticanza del peccato originale] bontà.
  4. Una tendenza utopica: a) utopico è il giudizio che fa definire gli occidentali specialmente cattivi, e b) utopica è l’aspettativa di un mondo perfetto.
    1. L’errore degli americani infatti in che cosa consisterebbe? Se si analizzano gli esempi riportati dalle pubblicazioni catto-pacifiste, a ben vedere esso si riduce ultimamente al fare i propri interessi, seppur legalmente; si riduce insomma a una non-generosità, nel senso che potendo legalmente guadagnare 100, non decidono di guadagnare solo 60, regalando 40 a chi è meno ricco. L'equivoco di questo giudizio è in parte riconducibile alla universalità del peccato originale (per cui si potrebbe dire: solo gli americani, solo gli occidentali scelgono di guadagnare?), e in parte a una, utopica, demonizzazione della aspirazione al guadagno, a cui soggiace una demonizzazione della tendenza alla felicità, in nome di un astratto dovere per il dovere. Il giudizio sotteso in effetti è “chiunque faccia i propri interessi è un egoista”, dunque sfruttatore, dunque cattivo. Ben diverso è il realismo tipico della tradizione cattolica: la tendenza alla propria felicità non solo non è mai stata demonizzata, ma al contrario è stata, da S.Agostino a S.Tommaso, valorizzata. Desiderare il proprio bene non è tendenza da demonizzare, semmai da coltivare andandone al fondo, e educando a vedere nel proprio vero bene il bene di tutta l’umanità, con cui siamo ontologicamente solidali. Immaginare invece una umanità che agirebbe esaurientemente in base al principio del dovere è astrazione utopica. Come utopico è immaginare che gli stati debbano, più che vietare il male, costringere al bene, obbligare alla generosità. E qui veniamo al sottopunto successivo: è giusto per un cristiano pretendere un mondo perfetto?
    2. Se il fine dell’azione del cristiano fosse la creazione di una società perfetta forse che Cristo non l’avrebbe detto? Dove si dice qualcosa del genere nei Vangeli e nel Nuovo Testamento? Gesù non è venuto a schiacciare gli oppressori: tant’è vero che se ne è lasciato crocifiggere. Non ha insegnato a strappare la zizzania, ma ha educato alla pazienza. Che non è connivenza col male, ma coscienza che si lotta contro il male puntando personalmente sul Bene, aderendo ad Esso, al dono del Bene che ci viene fatto e che richiede una lotta essenzialmente interiore, personale, indelegabile, non decisa dalle strutture sociali o politiche.
  5. I limiti di spazio non ci consentono di sviluppare altri punti, che ci limitiamo perciò ad accennare, ossia un prevalere di un orizzonte terreno-collettivistico, una importanza pressoché esclusiva alla componente materiale dell’uomo (per cui ad esempio le idee non contano, ma solo l’economia), una propensione alla violenza verbale e all’attacco “duro” contro “i nemici”, fossero pure fratelli nella fede.

Si vede insomma che questa componente rappresenta oggettivamente un pericoloso cedimento a ideologie estranee alla fede cattolica.

4. La non-violenza

È la variante più stimabile; e in effetti non la si può probabilmente nemmeno ascrivere, proprie loquendo, al pacifismo. Ghandi è stato un autentico non-violento e un uomo di pace.

Purtroppo chi ha preteso di rifarsi a lui, raramente ne ha davvero saputo riprodurre la saggia concretezza, ed è spesso stato risucchiato in forme più o meno spurie di pacifismo.

In effetti uno dei cardini dell’azione di Ghandi è stata la fedeltà alla verità: "Sono fedele soltanto alla verità e non devo obbedienza a nessuno salvo che alla verità". Nella sua opera non si trova quella acredine contro il nemico, propria dello pseudo-pacifismo ideologico, quella faziosità che trasuda odio da tutti i pori, tipica dei lupi travestiti da agnelli. Chi è credente può facilmente riconoscere in lui un riflesso, certo inconsapevole, della grazia.

Guardiamo però a qualcuno dei sedicenti non-violenti, che dicono di rifarsi a Ghandi; consideriamone uno dei maggiori esponenti, Johan Galtung. Accanto a proposte non prive di saggezza, mescolate del resto a insipidi centoni, come quelle esposte ad esempio nella conferenza (Milano 1996) di presentazione del libro Scegliere la pace, troviamo pirotecniche e spericolate elucubrazioni come l’equiparazione di Bush e Ben Laden: “I discorsi di Bin Laden e di Bush sono assolutamente speculari. Solo che i due si servono di mezzi leggermente differenti: il primo usa il terrorismo, il secondo il terrorismo di stato.” (intervista al Manifesto, 28 maggio 2002). Ci sembra sia evidente come la preoccupazione di Galtung non sia quella di sapere dove stia la verità, ma di valutare inaccettabile, dunque esecrabile, ciò che a suo avviso, costituirebbe una premessa per l’uso della forza. Non così faceva Ghandi, che raccomandava la fedeltà alla verità come fattore primario.

Ne segue una proposta apparentemente bella e saggia: “più potere alle donne, alle organizzazioni internazionali, alle autorità locali, alle città e meno potere allo Stato e forse un po' di psicoterapia alle nazioni”. Abolire tendenzialmente gli stati e dare potere a realtà policentriche e disseminate, come le città, meglio se governate dalle donne. Da notare che uno degli aggettivi che ricorrono spesso negli scritti di Galtung è “facile”. È facile, secondo lui, cambiare il mondo in un paradiso di pace. C’è solo un piccolo problema, che nessuna delle soluzioni che lui propone (oltretutto definendola come “facile”) si è rivelata praticabile. Si potrebbe notare per esempio che tra le città-stato greche non c’era molta pace, né tra i comuni italiani del bassomedioevo. Ma più in generale è significativo che Galtung non possa portare nessun esempio concreto di successo del metodo da lui proposto nei rapporti internazionali. “Sarebbe bello”, “sarebbe facile”: ma poi la realtà va altrimenti.

Il metodo genuinamente ghandiano si è rivelato efficace per controversie interne a uno stato: ad esempio la lotta per l’indipendenza dell’India, o il crollo dei regimi comunisti dell’Est europeo e di molte dittature di destra all’inizio degli anni ’90 (Filippine, Sudafrica, Cile e altri paesi sudamericani).

Nel caso di controversie internazionali, cioè tra due stati già esistenti (quindi non si possono citare i casi delle ex-repubbliche sovietiche, né della Slovacchia), non ci risulta che esistano casi significativi risolti con metodi ghandiani, cioè con un totale rifiuto della forza.

Degno di nota ci sembra il fatto che Galtung espliciti il suo sottofondo culturale nel buddismo: “Preferisco di gran lunga la luce della Buddità” (conferenza citata). E in effetti può apparire seducente la proposta di una religione come il Buddismo, poco coinvolta in affari di guerra, in cui invece ebraismo, cristianesimo e islam sono, almeno in apparenza gravemente coinvolti. Si sa che i monoteismi sono oggi da importanti settori culturali messi sotto accusa, come fomentatori di intolleranza e potenzialmente di guerre. Tuttavia, lo notiamo di sfuggita, a noi sembra che la pace proposta da Galtung sia un simulacro al ribasso di una vera pace, sia o rischi di essere un sonno confonditore; la vera pace è attivamente interessata alla verità e al bene. Vorremmo dire: meglio sbagliare in vista di un bene (proprio e altrui) calorosamente voluto, che congelare le più autentiche aspirazioni umane nel freddo vuoto di una minimalistica indifferenza a tutto (la cui formula potrebbe essere: inutile combattere, perché niente ha valore, tutto essendo solo apparenza effimera). Siamo convinti che solo chi si scopre amato da un Tu che gli assicuri la salvezza dal nulla, può essere davvero in pace, e solo se si è davvero in pace si può essere operatori di pace.


Specchietto riassuntivo

Pacifismi:

La vera azione pacificatrice

Noi riteniamo che lo sguardo più realisticamente concreto sia quello insegnato dal Magistero della Chiesa. Ne vorremmo brevemente enunciare alcuni punti salienti:

1) la stima per l'uomo e per la sua vita, poggiante sul suo essere immagine e somiglianza di Dio.

Il che significa che una affermazione del valore della mera sopravvivenza biologica è qualcosa di decisamente incompleto: se l'uomo fosse solo un grumo di materia, perché darsi pena per lui?

2) Una realistica valutazione del fatto che la condizione concreta in cui l'uomo si trova non è più, per nessun uomo, gruppo o popolo, quella paradisiaca antelapsaria: il male corrode l'umano, e la pretesa di strappare tutta la zizzania produce effetti negativi. Il suggerimento conseguente è quello di migliorare il più possibile la condizione umana, sapendo che la pretesa di attuare una società perfetta non è cristiana, né realistica.

Immaginare un mondo perfetto, senza guerre, e agire come se questa immaginazione fosse realtà è grave imprudenza. Sarebbe come immaginare che, poiché è bene che non ci siano ladri, non ci siano in realtà ladri, e dunque si possono lasciare oggetti di valore assolutamente incustoditi. Sarebbe bello avere un mondo dove nessuno ruba e nessuno ammazza: ma scambiare un auspicio per realtà e agire di conseguenza non è senza gravi conseguenze.

Non è realistico rinunciare alla legittima difesa. Questa rinuncia può essere un atto eroico della singola persona, mossa da una ardente carità soprannaturale, ma non può essere trasposto sul piano dei rapporti internazionali come regola generale.

3) Solo in Cristo c'è la vera pienezza dell'umano, e le armi più vere contro il male, che ha la sua radice nel peccato originale e nell'azione del Diavolo, sono quelle della conversione personale alla proposta di Cristo, che implica un superamento delle proprie misure limitate.


Solo così si capiscono le parole del Papa, che troppo spesso vengono intese riduttivamente, strumentalizzandole a una visione faziosa. Citiamo ad esempio dall’Angelus del 23 febbraio 2003:

“Noi cristiani, in particolare, siamo chiamati ad essere come delle sentinelle della pace, nei luoghi in cui viviamo e lavoriamo. Ci è chiesto, cioè, di vigilare, affinché le coscienze non cedano alla tentazione dell'egoismo, della menzogna e della violenza. (…)
Imploreremo innanzitutto da Dio la conversione dei cuori e la lungimiranza delle decisioni giuste per risolvere con mezzi adeguati e pacifici le contese, che ostacolano il peregrinare dell'umanità in questo nostro tempo.
(…) A tale corale invocazione si accompagnerà il digiuno, espressione di penitenza per l'odio e la violenza che inquinano i rapporti umani.”

Il senso di essere “sentinelle della pace” è spiegato dal “cioè” successivo: non si tratta di azioni di piazza, ma di una lotta anzitutto dentro di sé, e solo conseguentemente di aiuto agli altri, perché non vinca la menzogna e l’egoismo. E questo non è un automatismo, che si possa facilmente ottenere, gridando slogans o esponendo bandiere: si tratta invece di una “conversione dei cuori”, così poco automatica, che va “implorata” “da Dio”. Né si tratta di invocare solo la conversione del cuore di alcuni (i dirigenti americani, o irakeni), ma di tutti, perché “l'odio e la violenza” “inquinano” non alcuni, ma “i rapporti umani”.


Del resto anche da un punto di vista puramente laico ci sembra che una autentica azione pacificatrice non possa accontentarsi di un giudizio sulla realtà approssimativo e mosso dalla paura. Si tratta di guardare fino in fondo alla realtà, e di decidere coraggiosamente di assumersene il carico. Anche se ciò può comportare un sacrificio pesante.

note


[1] Per citare ancora il Catechismo: «§2034. (…) La pace non si può ottenere sulla terra senza la tutela dei beni delle persone, la libera comunicazione tra gli esseri umani, il rispetto della dignità delle persone e dei popoli, l'assidua pratica della fratellanza. E' la “tranquillità dell'ordine” [Sant'Agostino, De civitate Dei, 19, 13]. E' frutto della giustizia [Cf Is 32,17 ] ed effetto della carità [Cf Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 78].» - «§2305. La pace terrena è immagine e frutto della pace di Cristo, il “Principe della pace” messianica ( Is 9,5 ). Con il sangue della sua croce, egli ha distrutto “in se stesso l'inimicizia” ( Ef 2,16 ), [Cf Col 1,20-22 ] ha riconciliato gli uomini con Dio e ha fatto della sua Chiesa il sacramento dell'unità del genere umano e della sua unione con Dio. “Egli è la nostra pace” ( Ef 2,14 ). Proclama “beati gli operatori di pace” ( Mt 5,9 ).»

[2]Usiamo questo termine, catto-pacifismo, per brevità, come sostanziale sinonimo di catto-comunismo, ovvero come impostazione che demonizza la globalizzazione e la civiltà occidentale in genere, vista come una Bestia dell'Apocalisse, incarnazione di Satana; sappiamo bene però che si tratta di una schematizzazione, e che la realtà del “cattolicesimo di sinistra” è variegata.